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GLI UMBRI DELL'ETA' DELLA PIETRA

IL PIU' GRANDE UOMO SCIMMIA DEL PLEISTOCENE – [...] Zia Nellie era stata resa vedova da un rinoceronte lanoso e zia Pamela detta Pam, da un Boa constrictor. "Ha provato a mangiarlo" lamentava zia Pam. "Io gliel'avevo detto che non poteva fargli bene. Ma mi ascoltava? Mai! Era come mangiarsi una biscia, diceva. Va be' almeno taglialo, prima, per l'amor del cielo! Macché, non ha voluto fare neanche questo. E solo perché gliel'avevo detto io, naturalmente. [...]. Nellie, Pam e le buonanime dei loro consorti, dipartiti in frangenti piuttosto originali per noi, ma oggetto di argomento colloquiale nel contesto di una comunità cavernicola di età pleistocenica, sono solo alcuni degli stravaganti parenti di Edward, un uomo dell'età della pietra molto, molto speciale. E degno di tutto rispetto.

Nel divertente romanzo del giornalista Inglese Roy Lewis, è infatti a lui che si deve la scoperta del fuoco, la dieta onnivora, l'arco per cacciare e persino l'istituzione del matrimonio. Animato dal nobile desiderio di migliorare la qualità della vita dei suoi contemporanei, Edward tenta in ogni modo di diffondere le proprie innovative conoscenze. Ma è fortemente osteggiato dai membri della sua famiglia che, grazie al monopolio delle sue scoperte, intendono esercitare la supremazia del loro branco sugli altri. Il libro, la cui prima edizione è datata 1960, ma che continua da allora ad essere periodicamente ristampato, è un' esilarante descrizione della vita dei nostri progenitori durante il Pleistocene.
Il filo conduttore su cui si dipanano le vicende di Edward e dei suoi consanguinei è l'evoluzione, rifiutata categoricamente in ogni sua espressione dal fratello del protagonista, scorbutico ominide ancora arboricolo che deplora grandemente la posizione eretta, ma che non disdegna di scaldarsi al fuoco durante le fredde sere invernali. La garbata e sottile ironia che traspare dalle parole e dalle azioni di ogni personaggio, proietta all'indietro nel tempo stereotipi e cliché comportamentali di una società anni '60 che appare ancora molto attuale, e illustra gli effetti collaterali che rappresentano l'altra faccia della medaglia chiamata Progresso da oltre un milione di anni. Dal Pleistocene, per l'appunto.
IL PROFILO DEGLI UMBRI NEL PLEISTOCENE - Una mandibola grossa quanto quella di un gorilla. Una dentatura forte, e potenti muscoli per la masticazione, innestati su zigomi robusti e prominenti. Fronte sfuggente e cavità orbitali accentuate, sopra a un naso largo e piatto e ad un mento poco pronunciato. E' questo il profilo del nostro progenitore, il primo vero umbro della preistoria. E – anche se forse non è stato il più grande uomo scimmia del Pleistocene – di certo ne avrebbe avute di avventure da raccontarci. Le testimonianze fossili rinvenute nella cosiddetta Breccia Ossifera del Peglia, un'antica caverna sulla cima del monte che sovrasta San Venanzo, e che rappresenta il sito paleo-antropologico più antico della nostra regione, evocano immagini di un mondo inquietante - dove i nostri antenati dovevano difendersi da predatori feroci come le tigri dai denti a sciabola - e al tempo stesso affascinante.
Una finestra aperta sulle nostre origini più ancestrali, sul passato più arcaico che appartiene al genere umano: l'età della pietra. E proprio di pietra sono i reperti del Peglia: schegge di quarzite e calcari dai margini taglienti, resi affilati dall'ingegno dei primi abitanti dell'Umbria, che trovavano riparo all'interno di anfratti e grotte naturali, e come armi avevano a disposizione nulla di più che sassi grossolanamente lavorati. Poche scaglie sparse sulla terra, mescolate ad ossa e denti di animali che appartengono a un tempo che fu, potrebbero sembrare ben poca cosa, ma se si pensa che sono stati la prima scintilla di una cultura che in meno di 1 milione di anni ci ha portato all'era delle nanotecnologie e dell'ingegneria genetica, questi semplici manufatti assumono tutt'altra rilevanza.
L'UOMO DIMENTICATO NELL'ARGILLA - A parte qualche altro strumento litico proveniente dalla zona di Gualdo Tadino e di Nocera Umbra, per ora nella nostra regione non si è trovata altra traccia degli uomini che vissero nell'età della pietra. Ma poco lontano, nelle campagne di Ceprano - una località del basso Lazio in provincia di Frosinone - 15 anni fa venne fatta una grande scoperta, che inspiegabilmente è ancora oggi poco conosciuta e divulgata. Gli scavi per costruire una nuova strada dissotterrarono una calotta cranica fossilizzata. L'uomo di Ceprano, chiamato Argil dalla coltre di argilla in cui era rimasto sepolto per 800.000 anni, finalmente vedeva di nuovo la luce. Purtroppo la sua rinascita non è mai stata salutata dai mezzi di informazione con il dovuto calore, ma le indagini scientifiche hanno dimostrato che Argil è stato un ominide un po' particolare: con molti dei caratteri del già noto Homo Erectus, ma con alcune differenze peculiari sotto altri aspetti.
IL CESPUGLIO GENEALOGICO - Nel modello lineare che fino a pochi decenni fa veniva universalmente accettato per l'evoluzione dell'uomo (Australopithecus – H. Habilis – H. Erectus – H. Neanderthal – H. Sapiens), Argil non avrebbe dunque trovato una sua esatta collocazione, essendo per certi versi un Homo Erectus, ma non per altri. Argil era piuttosto una conferma di ciò che molti studiosi già ipotizzavano da tempo, alla luce di altre scoperte che fornivano evidenze contrastanti con il modello evolutivo lineare. Sembrava che, fin dal tempo dei nostri più antichi progenitori africani del genere Australopithecus, le fasi evolutive verso il genere Homo e la specie Sapiens fossero state più di una, alcune parallele, altre incrociate e sovrapposte, come in un cespuglio genealogico, più che nel tradizionale albero. Oggi è appurato che il modello che tutti noi ricordiamo per l'incisività della sua rappresentazione, con le figure antropomorfe progressivamente sempre più erette, fino alla completa verticalizzazione nell'Homo sapiens, è totalmente errato e superato. Il modello evolutivo attualmente proposto è molto più accurato, e concorda – oltre che con le prove paleoantropologiche classiche – anche con i moderni dati di Antropologia Molecolare, basati sui raffronti fra il DNA umano e quello dello scimpanzé, che datano il nostro comune antenato ad un periodo compreso fra 6 e 7 milioni di anni fa.
LA SPAZZATURA CHE CI DIFFERENZIA - Che lo scimpanzé sia il nostro parente vivente più prossimo è un dato di fatto. E anche che con lui condividiamo il 99% del DNA. D'altro canto, non si può neanche negare quanto siamo diversi. Ma allora ci dev'essere qualcosa di estremamente importante in quel piccolo 1% di DNA che ci differenzia. Finora non potevamo sapere cosa, ma adesso che entrambi i genomi sono stati mappati, è tempo di scoprirlo. La rivista “Le Scienze” di questo mese dedica la copertina e le pagine centrali a questo interessante argomento, spiegando che l'analisi del patrimonio genetico che ci differenzia dallo scimpanzé è tuttora in corso, e per il momento ha messo in risalto alcune sequenze di DNA con funzioni molto particolari in varie parti del corpo. Una di esse, ad esempio, facilita l'articolazione delle parole da parte della bocca, rendendo più semplice comunicare attraverso il linguaggio. Un'altra guida lo sviluppo del polso e del pollice, elementi anatomici che hanno determinato nell'uomo la capacità di maneggiare strumenti con una precisione ineguagliata nel resto dei primati.
In questo 1% di DNA che ci rende umani, ci sono anche sequenze che controllano le dimensioni del cervello, e che attivano lo sviluppo della corteccia cerebrale, particolarmente grande rispetto a quella dei nostri più stretti cugini. Ma la scoperta più sconvolgente che è stata fatta, è che molte delle sequenze di DNA che ci differenziano dallo scimpanzé non codificano per nessuna proteina. Fino a ieri, la biologia molecolare si era concentrata unicamente sullo studio dei geni che codificano proteine, i mattoni fondamentali delle cellule, che nell'uomo rappresentano solo l'1,5% del DNA. Il resto (98,5%) veniva definito “DNA spazzatura”. Non si sapeva a cosa servisse, e se davvero servisse a qualcosa. Oggi cominciamo a intuirlo. E questo qualcosa già basterebbe per dargli un nome più appropriato. Chissà cosa scopriremo domani.
Daniela Querci (10/08/2009)



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